SENTENZA TAR LAZIO del 12/9/2009

Sentenza TAR Lazio del 12/9/2009


N. 08650/2009 REG.SEN.

N. 00693/2009 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Terza Quater)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

contro

e con l'intervento di

per l'annullamento

Sul ricorso numero di registro generale 693 del 2009, proposto da: Movimento Difesa del Cittadino Mdc,

rappresentato e difeso dall'avv. Gianluigi Pellegrino, con domicilio eletto presso Gianluigi Pellegrino in Roma, corso

Rinascimento, 11;

Min del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali, Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentati e difesi dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; Pres Cons Min - Comitato Nazionale Bioetica;

ad opponendum: Movimento per la Vita, rappresentato e difeso dagli avv. Filippo Vari, Studio Legale Loiodice &Associati, con domicilio eletto presso Studio Legale Loiodice & Associati in Roma, via Ombrone, 12 Pal B);

dell’atto del 16 dicembre 2008 con il quale sono state dettate ai Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano, disposizioni ed indirizzi volti a garantire che le strutture sanitarie pubbliche e private si uniformino ai principi sopra esposti compreso quello di garantire sempre la nutrizione e l’alimentazione nei confronti delle persone in Stato Vegetativo Persistente e quindi anche contro la volontà espressa in senso contrario;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Min del Lavoro della Salute e delle Politiche Sociali;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei Ministri;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 marzo 2009 il dott. Linda Sandulli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:

FATTO

Con ricorso depositato in data 27 gennaio 2009 il Movimento Difesa del Cittadino, associazione di promozione sociale inserita nell’elenco istituito ex articolo 137 d.lgs. n. 206/2005 presso il Ministero dell’Attività Produttive impugna, chiedendone l’annullamento, il provvedimento adottato il 16 dicembre 2008 dal Ministro del Lavoro, salute e politiche comunitarie, indirizzato ai Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano con il quale sono state dettate le disposizioni e gli indirizzi volti a garantire sempre la nutrizione e l’alimentazione nei confronti delle persone in Stato Vegetativo Persistente e quindi anche contro la volontà espressa in senso contrario.

Deduce i seguenti motivi:

1)-Violazione degli articoli 2 e 32, comma 2, della Costituzione. Violazione dell’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Violazione dell’articolo 1 della legge n. 180 del 1978. Violazione dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

2)-Violazione dell’articolo 8 della legge n. 131 del 2003. Violazione dell’art. 117 della Costituzione.

Ha presentato atto di intervento ad opponendum (depositato il 21.3.09) il Movimento per la Vita che ha eccepito la mancanza di legittimazione a ricorrere dell’associazione ricorrente, per carenza di lesività dell’atto impugnato e per mancata impugnazione degli atti presupposti contestando la fondatezza del gravame nel merito.

Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata che ha eccepito, come l’interveniente, l’inammissibilità del ricorso sotto vari profili e contestato le argomentazione dell’associazione ricorrente nel merito.

All’udienza pubblica del 25 marzo 2009, preso atto della rinuncia, dichiarata a verbale dalla difesa di parte ricorrente, a tutti i termini a difesa nei confronti dell’atto d’intervento sopra citato, esperita la discussione orale, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

Innanzitutto deve considerarsi che sono state sollevate varie eccezioni pregiudiziali e preliminari fra le quali anche quella di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del Giudice Amministrativo sotto vari profili: in senso assoluto, per insussistenza della natura provvedimentale dell’atto impugnato e di una situazione soggettiva tutelabile;

in senso relativo, per l’assoluta discrezionalità del potere esercitato e perché il ricorso è volto alla tutela del diritto soggettivo della salute, assoluto ed inviolabile.

Il Collegio deve, quindi, darsi carico di stabilire l’ordine di esame e trattazione delle varie eccezioni che, oltre quella testé ricordata, riguardano anche: inammissibilità per difetto di legittimazione a ricorrere; inammissibilità per difetto della lesività dell’atto impugnato;

inammissibilità per mancata impugnazione di atti presupposti;

inammissibilità per difetto d’interesse.

E’ noto che, secondo la prevalente giurisprudenza, nell’ordine di esame delle questioni pregiudiziali, quella attinente la giurisdizione deve precedere ogni altra questione poiché anche le statuizioni sul rito costituiscono manifestazione di esercizio del potere giurisdizionale, di pertinenza esclusiva del giudice dichiarato competente a conoscere della controversia (Cons. St., sez. IV, 30.01.2009 n. 519; 20.09.2006 n. 5528; 27.12.2006 n. 7877; TAR Lazio RM, sez. III, 05.11.2007 n. 10894; TAR Valle d’Aosta 22.01.1999 n. 5). Tuttavia, non mancano in giurisprudenza esempi in cui sono state esaminate questioni preliminari (ad esempio, attinenti all’interesse a ricorrere) prima della verifica (ed a prescindere) della sussistenza della giurisdizione (TAR Lazio Latina, 14.02.2006 n. 145; 22.06.2005 n. 557; TAR Liguria, sez. II, 12.06.1997 n. 216).

Orbene, nel caso della controversia qui in esame, le argomentazioni poste a sostegno delle varie eccezioni pregiudiziali e preliminari presentano interconnessioni, nei sensi che saranno evidenti in seguito, tali da richiedere al Collegio di seguire un ordine inverso rispetto a quello indicato dalla prevalente giurisprudenza, in modo da trattare per ultima l’eccezione attinente la giurisdizione.

Va, preliminarmente, esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione a ricorrere del Movimento di difesa del cittadino, sollevata dall’amministrazione intimata e dall’interveniente ad opponendum.

Secondo tali parti, l’associazione ricorrente sarebbe priva della legittimazione attiva in quanto i molteplici campi di attività di sua competenza non ne comprenderebbero alcuno riferibile in modo puntuale a quello relativo alla questione in esame ed inoltre, l’atto impugnato non rivelerebbe alcun collegamento tra la predetta associazione e i suoi compiti.

D’altro canto la genericità degli ambiti rimessi alla sua competenza, che lambiscono tutti i settori dell’azione pubblica, non potrebbero risolversi in una legittimazione generale ad impugnare qualsiasi atto emanato da qualsiasi pubblica amministrazione. L’eccezione è infondata.

Iscritta nell’elenco istituito ex articolo 137 del D. Lgs. n. 206 del 2005 presso il Ministero delle attività produttive, il Movimento di difesa del cittadino opera, ex articolo, 2 lettera g) del suo Statuto, per “la tutela e la salute delle persone e del rispetto dei diritti del malato e della sua famiglia, anche nei rapporti con le strutture sanitarie pubbliche e private e con le aziende produttrici e distributrici di prodotti e servizi destinati alla salute delle persone.” Agendo la medesima, nel caso di specie, avverso un atto – la cui natura verrà definita in occasione dell’esame della seconda eccezione di inammissibilità del ricorso – indirizzato alle Regioni e teso a garantire un’uniformità di azione nel campo dell’assistenza sanitaria da parte di tutte le strutture sanitarie pubbliche e private, avverso un atto destinato, quindi, ad incidere direttamente sulle prestazioni che riguardano il malato che ne resta immediatamente coinvolto, lo stesso deve ritenersi rientrante nell’ ipotesi contemplata nella lettera g) prima esposta.

Ne consegue che l’associazione ricorrente risulta titolare della legittimazione ad agire. Viene, poi, in rilievo la seconda eccezione di inammissibilità con la quale le parti costituite, amministrazione resistente e interventore ad opponendum, affermano, la prima che l’atto impugnato è meramente ricognitivo delle disposizioni esistenti; la seconda che è interpretativo dei principi e delle previsioni esistenti; in entrambe le ipotesi che è inidoneo a produrre una qualunque lesione.

In particolare l’Amministrazione intimata assume che l’atto gravato, oltre ad essere meramente ricognitivo non potrebbe essere ritenuto adottato in violazione di una sentenza passata in giudicato.

La sentenza che si assume violata è quella relativa ad un caso particolare ed essendo, nello specifico, un provvedimento di volontaria giurisdizione non può dirsi passata in giudicato e tantomeno vincolante se non per le parti direttamente coinvolte. Essa sarebbe, pertanto, inidonea a vincolare l’autorità che ha emanato l’atto gravato, quindi l’Amministrazione che resiste nel presente giudizio, né questo Tribunale.

Prima di esaminare l’eccezione esposta nelle parti comuni dai soggetti prima citati, il Collegio ritiene di dover premettere che la questione sottoposta al suo esame è di carattere generale e prescinde, oramai, dal caso al quale fa riferimento l’Amministrazione, il quale risulta, allo stato, superato.

Se l’atto impugnato dovesse intendersi limitato a quella fattispecie al Collegio non resterebbe che dichiarare la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione.

Essendo, invece il provvedimento sulla cui natura ci si intratterrà immediatamente dopo, un provvedimento di carattere generale e quindi tuttora efficace, l’interesse alla decisionesopravvive e, in premessa, quello all’esame della seconda eccezione di inammissibilità del ricorso.

In relazione alla natura del provvedimento gravato osserva il Collegio che la lettura dell’atto impugnato depone per una interpretazione contraria alla tesi esposta da entrambe le parti costituite.

Infatti, dopo una premessa di carattere generale sui principi che richiama, in modo del tutto generico, il provvedimento in parola indica la sua finalità che è quella di “garantire uniformità di trattamenti di base su tutto il territorio nazionale e di rendere omogenee le pratiche in campo sanitario con riferimento a profili essenziali come la nutrizione e l’alimentazione nei confronti delle persone in Stato Vegetativo Persistente (SVP)”.

Richiama, quindi, il parere espresso dal Comitato nazionale per la bioetica nella seduta del 30 settembre 2005, di cui riporta alcuni brani per concludere che “la negazione della nutrizione e dell’alimentazione può configurarsi come una discriminazione fondata su valutazioni circa la qualità della vita di una persona con grave disabilità e in situazione di totale dipendenza”.

Richiama, infine, la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 settembre 2006, sottoscritta dall’Italia il 30 marzo 2007 (e in corso di approvazione da parte del Parlamento italiano sia alla data di adozione dell’atto oggi in esame sia alla data della proposizione del ricorso) che prevede, all’articolo 25, il diritto di godere del migliore stato di salute possibile delle persone con disabilità compreso il rifiuto discriminatorio di cibo, di prestazioni di cure e servizi sanitari o cure.

Fatta questa premessa conclude con il ritenere incluse nel novero delle persone con disabilità quelle in SVP ed indica, nel rispetto della norma contenuta nell’articolo 25 ancora in itinere, il divieto di ogni discriminazione tra la persona in stato vegetativo rispetto a quella non in stato vegetativo.

Invita pertanto le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano ad adottare “le misure necessarie affinché le strutture sanitarie pubbliche e private si uniformino ai principi sopra esposti e aquanto previsto dall’articolo 25 della convenzione sui diritti delle persone con disabilità”.

Ora, deve considerarsi che il Comitato nazionale per la bioetica, istituito dopo la risoluzione n. 6-00038, approvata il 5 luglio 1988 dall'Assemblea della Camera dei Deputati, e nominato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 28 marzo 1990, successivamente rinnovato, ha la funzione di “orientare gli strumenti legislativi ed amministrativi volti a definire i criteri da utilizzare nella pratica medica e biologica per tutelare i diritti umani ed evitare gli abusi ed ha il compito di garantire una corretta informazione dell'opinione pubblica sugli aspetti problematici e sulle implicazioni dei trattamenti terapeutici, delle tecniche diagnostiche e dei progressi delle scienze biomediche” (secondo la precisazione fornita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri) con un potere solamente consultivo e che l’articolo 25 del d.d.l. in itinere alle date indicate era anch’esso privo di contenuto cogente proprio in quanto contemplato da una proposta di legge in corso di approvazione.

Deve, conseguentemente, ritenersi che l’atto censurato con il quale si richiama la necessità di comportamenti uniformi, che si sostiene siano già esattamente previsti nei provvedimenti menzionati (parere Comitato bioetica e articolo 25 d.d.l. in itinere) sia in realtà un atto prescrittivo e innovativo sul piano dell’ordinamento positivo atteso che trasforma in obbligo di comportamento il contenuto di pareri e di proposte di disposizioni non ancora entrate nel quadro normativo di settore invitando le Regioni ad agire di conseguenza.

Deve ritenersi, allora, che lo stesso non possa essere ritenuto “inidoneo a produrre alcuna lesione” in quanto meramente ricognitivo.

Ma anche nel caso in cui lo si volesse intendere come atto interpretativo di principi esistenti teso a garantire uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale, l’atto rivelerebbe il suo contenuto potenzialmente lesivo.

Richiamare soltanto uno dei significati estraibili dai suddetti principi e pervenire alla loro applicazione omogenea sul territorio vuol dire che soltanto uno dei possibili significati viene prescelto divenendo, in tal modo operativo per tutti i soggetti operanti nell’ambito della Sanità.

Ancora una volta la difesa dell’Amministrazione resistente, richiama il caso relativo al provvedimento di volontaria giurisdizione pervenuto ormai alla sua concreta applicazione ed assume che proprio quel caso, che ha visto l’applicazione della sospensione dell’alimentazione e della nutrizione forzata senza conseguenze per la struttura privata che vi ha proceduto, testimonierebbe la non lesività del provvedimento gravato.

Ancora una volta il Collegio richiama l’ambito del suo intervento che non è quello di soffermarsi su una vicenda particolare ormai esaurita, ma sul contenuto generale dell’atto gravato.

In ogni caso ritiene che il richiamo alla vicenda sopraccitata sia del tutto improprio al fine che ci occupa atteso che quella vicenda ha visto la sua conclusione dopo una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 21748/2007 depositata il 16 ottobre 2007, che ha rinviato il caso ad una diversa sezione della Corte d'Appello di Milano, stabilendo due presupposti necessari per poter autorizzare l'interruzione dell'alimentazione artificiale, e dopo il decreto del 9 luglio 2008 con cui la stessa Corte ha autorizzato il genitore, in qualità di tutore, ad interrompere il trattamento di idratazione ed alimentazione forzata.

E’ in attuazione di questa complessa vicenda giudiziaria – riassunta molto sinteticamente – che la vicenda alla quale fa riferimento la difesa erariale si è conclusa senza conseguenze per la struttura che ha dato seguito al protocollo approvato; ma non può farsi discendere da ciò la conseguenza della fondatezza della tesi circa la non lesività dell’atto impugnato.

Del resto attribuire a tale atto la valenza indicata – di assoluta non lesività attesa la sua neutralità – significherebbe, in definitiva, eliminarlo dal mondo del diritto, ritenerlo cioè tamquam non esset.

In realtà, ritiene il Collegio che nella scelta operata dall’Amministrazione resistente con l’adozione del provvedimento in esame, non possa negarsi la sussistenza né di un carattere innovativo né di un carattere prescrittivo e quindi potenzialmente lesivo con la conseguenza che l’atto impugnato si rivela autonomamente impugnabile.

Anche la seconda eccezione deve essere, pertanto, disattesa.

Il Collegio procede, quindi, all’esame della terza eccezione di inammissibilità del ricorso per mancata impugnazione degli atti presupposti sollevata dal Movimento per la Vita.

Ad avviso di quest’ultimo l’Associazione ricorrente avrebbe dovuto impugnare il DPCM del 29 novembre 2001 sui “Livelli essenziali di assistenza” e relativi allegati come modificati ad opera del DPCM 5 marzo 2007 e il Piano Sanitario Nazionale che contengono gli stessi principi ribaditi nell’atto gravato e dunque non prevedono la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione della persona.

L’eccezione è palesemente infondata.

Premesso che il provvedimento gravato trova il suo fondamento, per sua espressa previsione, negli atti sopra riportati (parere Comitato per la bioetica e articolo 25 ddl in itinere) tra i quali non figurano quelli appena riferiti, deve osservarsi che oggetto della contestazione in esame non è una mancata prestazione ma, al contrario, l’imposizione di una determinata prestazione sicché l’argomentazione svolta, che si basa sulla mancanza di una previsione espressa che consenta la non alimentazione in determinati casi, non coglie nel segno dovendosi fare riferimento a ciò che è previsto e non a ciò che non è disciplinato.

Resta da esaminare l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sollevata dalla difesa erariale.

Si tratta di questione che chiama in se la natura della posizione giuridica coinvolta.

Ne consegue che per valutarla occorre esaminare sia la prescrizione del Ministero della Salute sia la posizione che la stessa ricorrente assume violata.

Con la prima censura la ricorrente associazione lamenta la violazione degli articoli 2 e 32, comma 2, della Costituzione; la violazione dell’articolo 1 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dell’articolo 1 della legge n. 180 del 1978.

L’articolo 32, comma 2, della Costituzione, l’articolo 3 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e l’articolo 1 della legge n. 180 del 1978 prevedono tutti che ogni individuo ha il diritto di non essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario (se non per disposizione di legge, secondo la nostra carta costituzionale).

Il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari è fondato sulla disponibilità del bene “salute” da parte del diretto interessato e sfocia nel suo consenso informato ad una determinata prestazione sanitaria.

Da tale premessa consegue che i pazienti in Stato Vegetativo Permanente, che non sono in grado di esprimere la propria volontà sulle cure loro praticate o da praticare e non devono, in ogni caso, essere discriminati rispetto agli altri pazienti in grado di esprimere il proprio consenso possano, nel caso in cui la loro volontà sia stata ricostruita, evitare la pratica di determinate cure mediche nei loro confronti.

Conseguentemente la verifica circa l’obbligatorietà della prestazione sempre e comunque di trattamenti sanitari anche nell’ipotesi di accertata volontà contraria del paziente attiene al diritto della dignità umana che, ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, deve essere tutelata.

Alla luce di tale precisazione e considerato che con Legge n. 18 del 3 marzo 2009 l’Italia ha ratificato e reso esecutiva la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità ed il relativo Protocollo opzionale, a conclusione di un lungo iter legislativo avviato il 30 marzo 2007 a seguito della firma dei due strumenti giuridici internazionali, sul testo adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 13 dicembre 2006 ed entrata in vigore il 3 maggio 2008, il ricorso deve ritenersi inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice adito.

La parte precettiva contenuta nell’articolo di detta convenzione, all’articolo 25 lettera f), dispone che “gli Stati riconoscono che le persone con disabilità hanno il diritto di godere del migliore stato di salute possibile, senza discriminazioni fondate sulla disabilità” evitando di “prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità”.

Vertendosi in materia di diritti soggettivi la cognizione della loro eventuale lesione appartiene, infatti, al giudice ordinario.

Ma il difetto di giurisdizione va valutato anche con riferimento alla questione dell’imposizione di un identico trattamento a tutti i malati affetti dalle patologie descritte su tutto il suolo nazionale, anche di coloro dei quali sia stata accertata la volontà di rifiuto.

E’ stato ripetutamente affermato che: “Nel caso del diritto alla salute o di altri diritti essenziali di pari rango a causa del carattere esistenziale di inerenza alla persona che essi rivestono, la rilevanza centrale del principio di autodeterminazione vale a qualificarli come veri e propri diritti di libertà (ed in questo senso, la risoluzione del Parlamento

Europeo (EU) del maggio 1997 garantisce ai cittadini la più ampia libertà possibile di “Scelta Terapeutica”). Ne discende che ogni soggetto leso nella sua integrità psico-fisica non ha solo il diritto di essere curato, ma vanta una pretesa costituzionalmente qualificata di essere curato nei termini in cui egli stesso desideri, spettando solo a lui decidere a quale terapia sottoporsi o, eventualmente, a quale struttura più idonea affidare le sue aspettative di celere e sicura guarigione. Tali principi, già direttamente evincibili dalla nostra carta costituzionale, hanno trovato piena attuazione nel D.lgs. n. 502 del 1992 di riforma del nostro sistema sanitario, laddove, essendosi aperto definitivamente il mercato delle prestazioni sanitarie ai produttori privati attraverso il sistema dell’accreditamento, si è proprio inteso valorizzare ed attuare, in un’ottica costituzionalmente orientata, la libertà di scelta curativa del paziente, attraverso il passaggio da una visione monopolistico/ pubblicistica del settore sanitario ad una visione liberista ed elastica del medesimo, fondata sul pluralismo dell’offerta”

(Tribunale Nola, sez. II, 22 gennaio 2009, n. 213).

E’ stato ancora affermato che “Sulla base della legislazione emanata in ambito sanitario (si richiama l'art. 33, l. istitutiva del S.s.n. n. 833/78 che qualifica i trattamenti sanitari come, di norma, volontari) e delle pronunce giurisdizionali, il sistema giuridico si caratterizza attualmente in materia di autodeterminazione consapevole del paziente per una soglia particolarmente elevata dei consensi ai trattamenti sanitari, sostenuta da uno scopo di rango elevato qual è il diritto alla salute. È proprio questa soglia che qualifica il rapporto fra medico e paziente imponendo al medico di non attribuire alle sue valutazioni e decisioni, per quanto oggettivamente dirette alla salvaguardia del diritto alla salute del paziente, una forza di giustificazione dell'intervento che esse di per sé sole non hanno o, meglio, non hanno più come in passato - giacché devono rapportarsi con un altro diritto di rango costituzionale qual è quello della libertà personale che l'art. 13 qualifica come inviolabile”

( Tribunale Milano, sez. V, 16 dicembre 2008, n. 14883).

Ora, sembra al Collegio che anche la configurazione della pretesa tutela del diritto che si pretende leso rientri nella cognizione del giudice ordinario trattandosi ancora una volta di posizione qualificabile quale diritto soggettivo. Ma depone in tale senso anche la considerazione fatta propria dal giudice amministrativo nella sentenza del T.A.R. Campania Napoli, sez. I, 9 aprile 2009, n. 1883 ove si afferma che: “ A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004, è venuta meno (con effetto estensibile anche ai giudizi in corso) la previsione dell'art. 33 comma 2, lett. e), d.lgs. n. 80 del 1998, nel testo di cui alla l. n. 205 del 2000, la quale devolveva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie "riguardanti le attività e prestazioni di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell'espletamento di pubblici servizi, ivi comprese quelle rese nell'ambito del servizio sanitario..."; ne deriva che le controversie relative alle prestazioni erogate nell'ambito del S.S.N., nascenti da una posizione creditoria collegata al diritto del cittadino alla salute, per sua natura non comprimibile ad opera dell'attività autorizzativa dell'Amministrazione, sono devolute alla cognizione del giudice ordinario, ai sensi del criterio generale di riparto della giurisdizione”.

Alla luce delle precisazioni svolte non resta al Collegio che dichiarare il proprio difetto di giurisdizione.

Le spese di giudizio in considerazione della natura della questione trattata, possono essere compensate tra le parti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile per difetto di giurisdizione il ricorso proposto dal Movimento difesa del cittadino, meglio specificato in epigrafe.

Compensa le spese di lite tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.


Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 marzo 2009 con l'intervento dei Magistrati:

Mario Di Giuseppe, Presidente

Linda Sandulli, Consigliere, Estensore

Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 12/09/2009

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

IL SEGRETARIO